«A 50 anni, dopo 20 di lavoro rischio di non poter più lavorare perché non guadagno abbastanza»
La crisi ha colpito ormai trasversalmente tutte le più diverse categorie professionali, comprese quelle dei liberi professionisti, un tempo ritenuti immuni, soprattutto in virtù degli alti compensi. Tra questi anche gli avvocati. Qui di seguito la testimonianza anonima di uno di loro postata nel sito SiamoAvvocati. L’uomo si definisce «amareggiato e disgustato», in quanto, dopo più di 20 anni di professione, potrebbe doversi cancellare dall’Ordine in quanto non guadagna abbastanza.
«Sono un avvocato, ho più di cinquant’anni ed esercito da una ventina d’anni questa onorata e amata professione. Con grande sacrificio dei miei genitori, operaio mio padre e casalinga mia madre, ho studiato con profitto giurisprudenza e ho fatto mille lavori stagionali per arrivare al titolo; grandi sacrifici che poi sono stati premiati quando passai l’esame di procuratore, perché all’epoca c’era ancora la figura del procuratore.
Quando ho iniziato a lavorare, ero giovane e con tanta voglia di fare
Non posso negare che nei primi anni di professione ho lavorato bene, anche se non mi sono certo arricchito. Ho sempre esercitato con onestà e diligenza, rispettando al massimo le regole deontologiche e il vecchio regio decreto, non ho mai approfittato del cliente (anzi!!!), ho sempre rispettato il tariffario e mi sono sempre aggiornato, benché non vi fosse l’obbligo giuridico di collezionare crediti formativi. Non ho mai fatto politica, né mi sono mai tesserato a partiti politici per ottenere incarichi o sperare di ottenerne.
Nonostante non fatturassi milioni di lire (perché negli anni ’90 c’era ancora la lira), già allora potevo ritenermi professionalmente soddisfatto.
Ma la cosa più importante, potevo sperare in una pensione: mi iscrissi alla cassa, e con grande sacrificio pagavo regolarmente; poi quando i contributi hanno iniziato a essere eccessivi e sproporzionati rispetto al mio reddito che intanto calava causa la congiuntura economica e la penalizzazione di vivere in un’area economicamente depressa, ho dovuto cancellarmi, perché non ce la facevo ad assolvere, iscrivendomi all’INPS.
... e oggi pago le tasse, per avere in cambio cosa? Nulla!
In questi ultimi anni, il mio lavoro ha subito un ulteriore grave calo. Nonostante ciò, ho continuato e continuo imperterrito a lavorare come ho sempre fatto: poche pratiche, è vero, ma curate con la massima diligenza; pochi incassi, è vero, perché se non è lo Stato che paga in forte ritardo i (miei pochi) gratuiti patrocini, è il cliente che non paga affatto. Malgrado ciò, continuo a pagare il mutuo, il contributo all’ordine, l’assicurazione professionale, l’assicurazione RCA, l’iva, l’irpef e ogni altro obolo che lo Stato mi impone, oltre gli studi dei miei figli all’università e le mie naturali esigenze di vita, perché noi avvocati siamo esseri umani e non robot; quel che mi resta dopo tutto questo? Solo la soddisfazione di fare il lavoro che amo.
Ora la cassa mi ha comunicato con PEC l’iscrizione obbligatoria e mi impone di pagare una cifra abnorme, che consuma completamente o quasi il mio modesto reddito annuo. Ho letto l’articolo del Corriere sulle dichiarazioni del presidente di Cassa Forense, e mi sono sentito colpito: io esercito da più di venti anni e il mio reddito negli ultimi anni non è andato oltre una certa cifra… Che fare? Cancellarmi dall’albo? E per fare cosa? Ho più di cinquant’anni. Mi devo cercare un altro lavoro? E quale? Ho sempre fatto l’avvocato, ho sempre difeso i diritti altrui, e vedere che una parte della categoria a cui appartengo, tenta di affossare l’altra, mi dà un immenso disagio. E che dire a mia moglie? E ai miei figli?
«Che tristezza scoprire che la passione e l'impegno non vincono»
Non sono disperato, per carità!!! Sono semplicemente amareggiato e disgustato. Avrei potuto fare tanti mestieri, ma soprattutto avrei potuto fare l’impiegato pubblico o il vigile urbano, perché in Italia, a quanto pare, la massima aspirazione per i giovani è fare il dipendente pubblico (e il motivo è comprensibile), ma non l’ho fatto. Contrariamente alle esortazioni di mio padre e mia madre, che mi volevano impiegato comunale, ho scelto io la mia strada e la mia realizzazione professionale, perché qualcuno ci ha insegnato che siamo noi stessi gli artefici del nostro destino e gli autori della nostra realizzazione umana e professionale.
Perché, dunque, ora una norma vuole negarmi questa possibilità di scelta? Con quale diritto distrugge il mio sogno professionale e mi impone una cancellazione basata sul dato reddituale e contributivo? Io potrei essere felice e realizzato anche con poche pratiche, con un reddito minimo, e senza avere il BMW o l’ultimo modello dello smartphone della Apple… Vorrei continuare così… Ma vorrei avere anche una pensione.
Voglio uno Stato in cui ognuno paghi in base alle sue reali possibilità
Ecco, perché non sono contrario a pagare i contributi alla cassa (tanto un istituto previdenziale vale l’altro!!!), ma vorrei che fossero realmente equi e proporzionati alla mia capacità contributiva, e non imposti indipendentemente da essa, costringendomi così, a cinquanta e passa anni, a scegliere se pagare e privarmi anche del minimo per vivere dignitosamente o cancellarmi e ingrossare le file dei disoccupati che popolano i bar e le piazzette della cittadina in cui vivo…»