IL CONTO COINTESTATO NON IMPLICA L’ANIMUS DONANDI DEL MARITO NEI CONFRONTI DELLA MOGLIE
21.01.2014 18:08
“La cointestazione di un conto corrente, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto (art.1854 Cc) sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell'oggetto del contratto (art. 1298,secondo comma, Cc), ma tale presunzione dà luogo soltanto all'inversione dell'onere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici - purché gravi, precise e concordanti - dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa, dovendo dunque annullarsi la sentenza che riconduce cointestazione del conto la donazione del cinquanta per cento delle somme versate nel tempo dal uno dei contitolari sul conto, in quanto l'animus donandi non poteva essere riconosciuto sulla sola base di detta contestazione mentre il giudice avrebbe dovuto invece motivare sullo spirito di liberalità che assisteva ogni versamento.”
Questo il principio di diritto stabilito dalla Cassazione civile, seconda sezione, con la sentenza n. 809 pronunciata in data 16 gennaio 2014, in materia di conto corrente cointestato.
In particolare, una signora aveva proposto appello avverso la sentenza del Tribunale di Monza che aveva dichiarato il marito esclusivo proprietario delle somme riportate nel conto deposito titoli cointestato ai coniugi, acceso preso un istituto di credito. La Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza impugnata, aveva dichiarato, invece, il marito proprietario solo per il 50% dei soldi depositati sul predetto conto, sul presupposto che la cointestazione del conto alla moglie realizzasse una donazione indiretta alla stessa, di metà del valore delle somme in esso contenute, anche se acquisite con denaro pacificamente proveniente dalle sole disponibilità del marito.
Proposto ricorso per Cassazione, la suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, accoglieva le doglianze del ricorrente, stabilendo che la cointestazione di un conto a sé e alla moglie non prova la sussistenza dell’animus donandi e non realizza, perciò, una donazione indiretta in favore della stessa, per la metà delle somme versate sullo conto.
Nel caso di specie la provvista era costituita soltanto dai redditi del ricorrente, il quale aveva precisato che la decisione di cointestare il conto, costituiva un modo per coinvolgere la moglie nell’economia familiare a fronte delle sue innumerevoli lagnanze, la Suprema Corte conclude per il mancato spirito di liberalità da parte del marito.
La presunzione che dalla cointestazione del conto derivi anche la contitolarità dell’oggetto del contratto, da luogo esclusivamente ad un inversione dell’onere della prova, e si può superare per presunzioni semplici – gravi, precise e concordanti- dalla parte che deduce una situazione diversa da quella derivante dalla cointestazione stessa.
Conclusivamente, la doppia firma sul conto non è sufficiente a presumere la donazione indiretta essendo indispensabile la prova dello spirito di liberalità da parte del solo dei coniugi che alimenta la provvista.