Impresa in ginocchio. «La banca esercitò violenza privata»
Combattere gli illeciti bancari non sempre comporta un happy end. A volte, al contrario, può innescare un tira e molla che, lungi dal permettere al contribuente di svolgere la propria attività, ha come unico effetto congelare le responsabilità dell’istituto di credito. L’odissea di Giuseppe, ingegnere di Catania, è cominciata 9 anni fa: la banca di cui era cliente aveva preteso da lui interessi superiori a quelli stabiliti dal contratto. A nulla è valso il fatto che le autorità giudiziarie avessero accolto la sua istanza, così l’uomo ha presentato una denuncia per violenza privata. Nel frattempo però, la sua società di costruzioni non lavora più, e ha dovuto lasciare a casa 14 lavoratori. Ora ne resta solo uno.
I problemi iniziano dopo che, a un’importante e cospicua commessa, segue un significativo ritardo di pagamento. La banca segnala degli scoperti, ma in realtà il problema è che i tassi d’interesse sono lievitati. Il Tribunale di Catania condanna l’istituto di credito a risarcire l’uomo con un importo superiore al milione di euro. Per tutta risposta, non solo a Giuseppe viene contestato un dovuto di 600mila euro, ma è anche iscritto in Centrale Rischi. Lui propone un patteggiamento che non viene accolto. A questo punto cominciano gli atti persecutori.
Tramite il legale dell’uomo viene richiesto il nominativo dell’impiegato che ha iscritto Giuseppe in Centrale Rischi, però la banca fa quadrato e si rifiuta di renderlo noto. Intanto, lui tira le somme: un’azienda di quattro generazioni ha – di fatto – chiuso i battenti e lui è stato costretto a trasferirsi a Milano, sperando di cominciare daccapo reinventandosi come consulente.