Cartelle esattoriali Equitalia devono specificare il tasso applicato
Trasparenza. Sempre più, è questa la parola che mira a caratterizzare i rapporti tra cittadino e burocrazia.
Il merito è anche, anzi soprattutto, del numero crescente di sentenze che indicano con chiarezza questa direzione e che, costantemente, arrivano dai tribunali di tutta Italia.
Il 19 aprile scorso è stato il turno della Cassazione che, con la pronuncia n.9799, ha ribadito il principio in base al quale le cartelle esattoriali emesse da Equitalia devono specificare il tasso applicato, pena la nullità, per consentire al contribuente di gestire l’importo richiesto ed esercitare appieno il diritto di difesa.
Che si inserisce nel solco tracciato da un orientamento consolidato, stabilisce che, per esigere il pagamento degli interessi da parte del cittadino, deve risultare chiaro a quest’ultimo qual è il relativo tasso, come pure l’arco di tempo interessato. Laddove questi elementi manchino, si può procedere entro 60 giorni (30 in caso di infrazioni al codice della strada, e 40 in riferimento a contributi previdenziali Inps e Inail) alla contestazione del debito davanti al giudice competente.
Gli atti degli enti pubblici
Devono indicare in modo inequivocabile e completo le motivazioni che li hanno originati. Un obbligo, questo, che è particolarmente stringente nel caso delle cartelle esattoriali prodotte da Equitalia, se non sono precedute da avviso di accertamento. A sancire dette regole, i principi che disciplinano i provvedimenti amministrativi, e lo Statuto dei Contribuenti.
Dunque, Equitalia è tenuta a fornire una serie di informazioni indispensabili ai fini del calcolo aritmetico degli interessi: tra queste, il saggio, il capitale (ovvero l’ammontare del debito riportato nella cartella) e il periodo di riferimento.
Detti elementi spesso mancano del tutto, o sono comunque lacunosi, dunque, se si svolgesse un’analisi approfondita su molte cartelle esattoriali, emergerebbe che il relativo debito è nullo per difetto di motivazione.
Una sentenza di tenore analogo
La n. 1634, emessa il 3 maggio scorso dalla Commissione Tributaria Regionale di Bari (sezione 24). Questa ha integralmente cancellato gli interessi relativi a una cartella esattoriale iscritta a ruolo senza specifica motivazione.
Ogni giorno un italiano si sveglia, e sa che dovrà confrontarsi con la burocrazia, schivare i suoi colpi bassi, e difendersi da storture e anomalie. Un corpo a corpo che in alcuni casi si trasforma in vera e propria guerra di nervi. Un botta e risposta logorante, kafkiano, i cui effetti devastanti non tardano a manifestarsi, sul portafoglio, sull’umore … e sul fisico. Pensate a una situazione tipo: avete impugnato un avviso di pagamento, il giudice ha riconosciuto le vostre ragioni e cancellato il debito. Come se niente fosse, però, passa del tempo, e l’Agenzia di Riscossione batte cassa, magari iscrivendo un fermo amministrativo sulla macchina che usate per lavoro. Vi recate allo sportello per chiarire la situazione, ma ottenete una semplice alzata di spalle dagli impiegati, che dichiarano di non poter risolvere la faccenda, in quanto non debitamente informati dall’ufficio legale. Morale della favola, vi ritrovate, senza colpa, con le ganasce all’auto.
La domanda è: chi risponde del tempo e delle energie perse dal contribuente per dipanare la matassa? Come fare a evitare che il macroscopico disservizio resti impunito? La risposta è arrivata da una sentenza della Cassazione, la 7437 del 23 marzo scorso, che ha ribadito la risarcibilità del danno non patrimoniale (oltre a quello patrimoniale) scaturito da un avviso di pagamento illegittimo. In parole povere, se l’errore è di Equitalia, gli effetti in termini di stress vanno rimborsati al cittadino.
Cosa comporta la pronuncia della Cassazione?
L’ordinanza si riferisce ai casi in cui il contribuente debba contestare una cartella evidentemente inefficace, nonostante abbia precedentemente rilevato l’infondatezza della pretesa creditoria dell’Agenzia di Riscossione. Ciò gli dà il diritto di ottenere non solo il risarcimento delle spese legali sostenute (danno patrimoniale), ma anche delle pesanti conseguenze subite in termini morali (danno non patrimoniale).
Quali sono gli elementi di novità della sentenza?
La pronuncia 7437 del 23 marzo 2017 segna un punto di svolta, per quanto riguarda la tutela del danno non patrimoniale, ovvero della “lesione di un interesse garantito dalla Costituzione, o l’effetto di un reato”. Percepire il relativo indennizzo comporta infatti la documentazione dell’insorgere di conseguenze particolarmente gravi e diffuse - in termini di ansia, stress e tempo perso – e queste in passato difficilmente venivano riconosciute dai giudici, in relazione al comportamento della pubblica amministrazione.
La sentenza recentemente emessa dalla Cassazione evidenzia quindi la necessità e la volontà di proteggere il benessere psicofisico del cittadino che, anche contro la sua volontà, è costretto a un confronto magari prolungato e estenuante, con gli enti pubblici. In capo a questi ultimi, implicitamente, viene riconosciuto l’obbligo ad agire con buonsenso, laddove sia possibile esemplificare le procedure amministrative avvalendosi dei molteplici strumenti messi a disposizione della tecnologia.
Peraltro, il cittadino che chiede il risarcimento del danno morale non è, contestualmente, tenuto a quantificarlo e determinarne l’ammontare. Spetta infatti al giudice procedere al rimborso, seguendo il principio di equità, ovvero, valutando di volta in volta quale cifra possa essere sufficiente a rifondare gli effetti negativi subiti.
Agenzia di Riscossione batte cassa!
Ogni giorno un italiano si sveglia, e sa che dovrà confrontarsi con la burocrazia, schivare i suoi colpi bassi, e difendersi da storture e anomalie. Un corpo a corpo che in alcuni casi si trasforma in vera e propria guerra di nervi.
Un botta e risposta logorante, kafkiano, i cui effetti devastanti non tardano a manifestarsi, sul portafoglio, sull’umore … e sul fisico.
Pensate a una situazione tipo: avete impugnato un avviso di pagamento, il giudice ha riconosciuto le vostre ragioni e cancellato il debito.
Come se niente fosse, però, passa del tempo, e l’Agenzia di Riscossione batte cassa, magari iscrivendo un fermo amministrativo sulla macchina che usate per lavoro.
Vi recate allo sportello per chiarire la situazione, ma ottenete una semplice alzata di spalle dagli impiegati, che dichiarano di non poter risolvere la faccenda, in quanto non debitamente informati dall’ufficio legale. Morale della favola, vi ritrovate, senza colpa, con le ganasce all’auto.
La domanda è: chi risponde del tempo e delle energie perse dal contribuente per dipanare la matassa? Come fare a evitare che il macroscopico disservizio resti impunito? La risposta è arrivata da una sentenza della Cassazione, la 7437 del 23 marzo scorso, che ha ribadito la risarcibilità del danno non patrimoniale (oltre a quello patrimoniale) scaturito da un avviso di pagamento illegittimo. In parole povere, se l’errore è di Equitalia, gli effetti in termini di stress vanno rimborsati al cittadino.
Cosa comporta la pronuncia della Cassazione?
L’ordinanza si riferisce ai casi in cui il contribuente debba contestare una cartella evidentemente inefficace, nonostante abbia precedentemente rilevato l’infondatezza della pretesa creditoria dell’Agenzia di Riscossione.
Ciò gli dà il diritto di ottenerenon solo il risarcimento delle spese legali sostenute (danno patrimoniale), ma anche delle pesanti conseguenze subite in termini morali (danno non patrimoniale).
La pronuncia 7437 del 23 marzo 2017 segna un punto di svolta, per quanto riguarda la tutela del danno non patrimoniale, ovvero della “lesione di un interesse garantito dalla Costituzione, o l’effetto di un reato”.
Percepire il relativo indennizzo comporta infatti la documentazione dell’insorgere di conseguenze particolarmente gravi e diffuse - in termini di ansia, stress e tempo perso – e queste in passato difficilmente venivano riconosciute dai giudici, in relazione al comportamento della pubblica amministrazione.
La sentenza recentemente emessa dalla Cassazione evidenzia quindi la necessità e la volontà di proteggere il benessere psicofisico del cittadino che, anche contro la sua volontà, è costretto a un confronto magari prolungato e estenuante, con gli enti pubblici.
In capo a questi ultimi, implicitamente, viene riconosciuto l’obbligo ad agire con buonsenso, laddove sia possibile esemplificare le procedure amministrative avvalendosi dei molteplici strumenti messi a disposizione della tecnologia.
Peraltro, il cittadino che chiede il risarcimento del danno morale non è, contestualmente, tenuto a quantificarlo e determinarne l’ammontare.
Spetta infatti al giudice procedere al rimborso, seguendo il principio di equità, ovvero, valutando di volta in volta quale cifra possa essere sufficiente a rifondare gli effetti negativi subiti.
La burocrazia ci ha abituato a situazioni dominate dal principio “due pesi e due misure”. Mancanze o sviste, anche irrilevanti, da parte del contribuente, vengono punite in modo inflessibile, se ciò è necessario a garantire diritti e prerogative della pubblica amministrazione. Altrettanto rigore, purtroppo, non viene applicato da essa quando si tratta di doveri. La buona notizia è che, sempre più spesso, i giudici intervengono per tutelare i privati. L’ultima pronuncia in ordine di tempo che segue questa direzione, proviene dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, e si inserisce nel solco tracciato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano.
La sentenza in oggetto ha cancellato il debito di un contribuente a seguito della mancata risposta di Equitalia alla comunicazione che illustrava i motivi di illegittimità della pretesa creditoria. Tutto era cominciato con la ricezione di una serie di atti esattoriali, successivamente contestati secondo i modi previsti dalla legge.
Per tutta risposta l’Agenzia, piuttosto che “congelare” la procedura riscossiva e svolgere gli accertamenti richiesti, inoltrava comunicazione di ipoteca. A quel punto il cittadino aveva impugnato l’atto, precisando che il credito era nel frattempo decaduto, in quanto la missiva era rimasta inevasa per più dei 220 giorni previsti dalla legge. Come ricordato dai giudici milanesi, infatti, la risposta di Equitalia era arrivata solo il 17 dicembre 2014, a fronte di un’istanza depositata il 9 ottobre dell’anno precedente.
Definizione agevolata: più tempo per liquidare il debito?
Nel frattempo, a Montecitorio si continua a lavorare sulla manovra correttiva. Il Decreto Legge 50/2017 sarà infatti convertito a breve, e quindi in questi giorni vengono presentati una serie di emendamenti atti a correggerlo da parte dei vari gruppi parlamentari. Le proposte avanzate in materia fiscale sono molto varie, ma alcune stanno acquisendo un rilievo particolare: tra queste quella che prevede l’estensione del numero di rate necessarie a estinguere l’importo dovuto ad Equitalia.
Il regime previsto, in termini di definizione agevolata, potrebbe infatti non rivelarsi effettivamente sostenibile per i contribuenti. Se non cambieranno le regole fissate in precedenza, gli 800mila contribuenti che hanno aderito dovranno saldare l’importo calcolato dall’Agenzia di Riscossione in un’unica tranche, da versare entro fine luglio, o con un massimo di cinque, da estinguere entro settembre 2018. Peraltro, nell’eventualità si smettesse di pagare dopo la prima rata, si decadrebbe dal beneficio.
Annulla credito Equitalia
La burocrazia ci ha abituato a situazioni dominate dal principio“due pesi e due misure”.
Mancanze o sviste, anche irrilevanti, da parte del contribuente, vengono punite in modo inflessibile, se ciò è necessario a garantire diritti e prerogative della pubblica amministrazione.Altrettanto rigore, purtroppo, non viene applicato da essa quando si tratta di doveri.
La buona notizia è che, sempre più spesso, i giudici intervengono per tutelare i privati. L’ultima pronuncia in ordine di tempo che segue questa direzione, proviene dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, e si inserisce nel solco tracciato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano.
La sentenza in oggetto ha cancellato il debito di un contribuente
A seguito della mancata risposta di Equitaliaalla comunicazione che illustrava i motivi di illegittimità della pretesa creditoria. Tutto era cominciato con la ricezione di una serie di atti esattoriali, successivamente contestati secondo i modi previsti dalla legge.
Per tutta risposta l’Agenzia, piuttosto che “congelare” la procedura riscossiva e svolgere gli accertamenti richiesti, inoltrava comunicazione di ipoteca. A quel punto il cittadino aveva impugnato l’atto, precisando che il credito era nel frattempo decaduto, in quanto la missiva era rimasta inevasa per più dei 220 giorni previsti dalla legge. Come ricordato dai giudici milanesi, infatti, la risposta di Equitalia era arrivata solo il 17 dicembre 2014, a fronte di un’istanza depositata il 9 ottobre dell’anno precedente.
Definizione agevolata: più tempo per liquidare il debito?
Nel frattempo, a Montecitorio si continua a lavorare sulla manovra correttiva. Il Decreto Legge 50/2017 sarà infatti convertito a breve, e quindi in questi giorni vengono presentati una serie di emendamenti atti a correggerlo da parte dei vari gruppi parlamentari.
Le proposte avanzate in materia fiscale sono molto varie, ma alcune stanno acquisendo un rilievo particolare: tra queste quella che prevede l’estensione del numero di rate necessarie a estinguere l’importo dovuto ad Equitalia.
Il regime previsto, in termini di definizione agevolata, potrebbe infatti non rivelarsi effettivamente sostenibile per i contribuenti.
Se non cambieranno le regole fissate in precedenza, gli 800mila contribuenti che hanno aderito dovranno saldare l’importo calcolato dall’Agenzia di Riscossione in un’unica tranche, da versare entro fine luglio, o con un massimo di cinque, da estinguere entro settembre 2018. Peraltro, nell’eventualità si smettesse di pagare dopo la prima rata, si decadrebbe dal beneficio.